leggi questa mia lettera, e se la grafia non mi ti svela, guarda all’ultimo la firma.
Nel rileggere questa mattina e così per non saper che fare, tutte le carte dei miei amici, morti, mal vivi o vivi per tormento, mi è venuto un cattivo pensiero, e mi son detto: – questo che ho tra mano è un piccolo cimitero, e tante speranze, illusioni, sogni ed affetti vi giacciono sepolti! Questi son tutti buoni morticini, e bisogna che la mia pietà, che il mio amore ne abbiano cura.
Uno fra gli altri, morto non si sa di che, e seppellito in una tua lettera piena, quasi per ischerno, di affettuosa e fraterna sincerità, mi è venuto innanzi ridendo e mi ha rammentato le più belle, le più care avventure della mia vita.
– Oh guarda un po’ – mi son detto – a questo piccolo morto, il freddo e il silenzio non giovano gran fatto. – Come hai nome tu, piccolo amore? E lui: Amicizia! – O caro tanto! Vuoi andare un po’ a spasso? Ti farà bene il moto. La tua fossa pare una cuna, e tu vi stai freddo, freddo, che non si dice. Vuoi tu andare? Io ti dirò dove.
Carmelo, lo mando a te: se non ti dà noja, carezzalo ancora una volta.
Il poverino è stato con noi più tempo, e sotto lo stesso tetto. E tu dovresti amarlo quanto l’amo io. I nostri futili torti lo hanno prima ammalato; la nostra stupida negligenza l’ha poi ucciso, senza considerazione del passato e senza pena dell’avvenire.
Ora, dopo tanto, e non so come, io lo rivedo, e non posso, per quanto voglia, non sentirne pietà. Non so quale forza mi spinga a scriverti, a raccomandartelo con calore vivo d’affetto; ma è voce che move da questo cimitero che mi sta dinanzi, e le parole hanno spine e fanno pena.
Spero che a quest’ora tu sia pienamente risanato. Se vuoi, rispondimi, o altrimenti rimetti il morticino nella fossa, e credi pure, come io credo, che i morti come le mummie di Federico Ruysch, han parlato.